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Il Maestro: Pierfrancesco Favino, l’ex campione che ci spinge a giocare all’attacco

Il Maestro: Pierfrancesco Favino, l’ex campione che ci spinge a giocare all’attacco

“Queste regole ci stanno uccidendo”. Raul Gatti, che ha il volto di Pierfrancesco Favino, ex campione e ora mastro di tennis del piccolo Felice, a un certo punto questa cosa deve proprio dirla. Felice sta seguendo troppo alla lettera gli insegnamenti del padre, che era stato il suo precedente allenatore, e sta facendo un gioco troppo passivo, da fondocampo. Un gioco sicuro per aspettare l’errore dell’avversario. Anche Raul sta seguendo delle regole, che il medico gli ha prescritto.  Il Maestro, il nuovo film con Pierfrancesco Favino diretto da Andrea Di Stefano, già con lui ne L’ultima notte di Amore, è stato presentato alla 82ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e uscirà nelle sale il 13 novembre.

Estate, fine anni Ottanta. Dopo anni di allenamenti duri e regole ferree, Felice, tredici anni e sulle spalle tutte le aspettative paterne, arriva finalmente ad affrontare i tornei nazionali di tennis. Per prepararlo al meglio, il padre lo affida al sedicente ex campione Raul Gatti, che vanta addirittura un ottavo di finale al Foro Italico. Di partita in partita, i due iniziano un viaggio lungo la costa italiana che, tra sconfitte, bugie e incontri bizzarri, porterà Felice a scoprire il sapore della libertà e Raul a intravedere la possibilità di un nuovo inizio. Tra i due nasce un legame inatteso, profondo, irripetibile. Come certe estati, che arrivano una volta sola e non tornano più.

Ma sono tante le cose che, una volta passate, non tornano più. Se Felice forse di questo è ancora inconsapevole, se ne accorge invece Raul. Il Maestro è una storia che parla di rimpianti, di vittorie e fallimenti, e non solo su un campo da tennis. Ci parla del rapporto tra padri e figli e delle aspettative dei genitori che si traducono in pressioni. Ci parla delle scelte che facciamo e da cui non possiamo tornare indietro.

Il tennis è uno sport molto particolare. È un gioco dove sei solo con te stesso. E se sbagli, se perdi, non hai nessuno con cui prendertela, nessuno a cui dare la colpa. Puoi prendertela solo con te stesso. E allora sei messo al muro, sei messo allo specchio, devi guardarti dentro. E così il nostro Raul dovrà fare i conti con chi è stato e con quello che è diventato. E, forse, riuscire a guardare avanti.

Ci sembra un guascone, un piacione, il Raul Gatti – che saluta facendo “miao” – di Picchio Favino. Ma è un personaggio tragicomico, un classico carattere da Commedia all’Italiana, sfrontato ma un po’ codardo, sornione ma in fondo disperato. I Ray Ban a goccia, come quelli di Stallone e Tom Cruise, l’accento napoletano e quella parlata un po’ strascicata con la bocca semichiusa, un po’ tremante, i denti stretti, un sorriso amaro: il ritratto che Favino fa di questo ex campione caduto nel dimenticatoio è di quelli che non si dimenticano. È un personaggio a tutto tondo, sfaccettato, che ci fa arrabbiare, ridere e piangere. È un’altra grande interpretazione di quel mattatore che è Favino. Che qui riesce ad andare ancora oltre le sue migliori prestazioni. Questione di dettagli, sfumature, fremiti e tremolii. A proposito di grandi attori, Tiziano Menichelli, nel ruolo di Felice, è bravissimo nel tratteggiare un ragazzo adorabile e timido come lo sono stati tanti di noi a quell’età: guardate quegli occhi puliti e svegli, il sorriso, gli imbarazzi.

La storia di Raul Gatti, man mano che il film va avanti, si svela attraverso vecchie foto, vecchi luoghi, vecchi amici, automobili e ritagli di giornale. Ma fate attenzione anche a quei polsini da tennista che Raul non si leva mai. Come nella vecchia Commedia all’Italiana – qualcuno ha citato Il Sorpasso di Dino Risi – dietro ai sorrisi c’è una storia amara, amarissima. Ma con una possibilità di redenzione.

Ma, attenzione, Il Maestro non è solo Pierfrancesco Favino. È anche e soprattutto Andrea Di Stefano. La storia, scritta insieme a Ludovica Rampoldi, è uno script che esiste dal 2006, ed è la sua storia, quella di un aspirante campione di tennis. Non lo è diventato, per fortuna, perché così è diventato un ottimo attore e soprattutto un grande regista. Lo abbiamo visto dirigere The Informer, un prison drama adrenalinico girato in America meglio di come lo farebbero gli americani, e L’ultima notte di Amore, noir crepuscolare che aggiornava il genere alla sensibilità italiana. Ora questa commedia dolceamara, romanzo di formazione e, allo stesso tempo, ri-formazione. Andrea Di Stefano oggi è un regista che può fare qualsiasi cosa, uno di quei cineasti di casa nostra che, come Luca Guadagnino e Gabriele Muccino, potrebbero tranquillamente trasferirsi negli States e competere nel mercato americano, ma anche girare in Italia e dare al cinema italiano qualcosa di nuovo.

Andrea Di Stefano gira con inquadrature e angolazioni mai banali, spesso mette la macchina da presa addosso ai corpi e ai volti, per farci vivere da vicino le sensazioni dei protagonisti. La sua regia ha parecchi tocchi di classe: il ralenti con cui ferma l’immagine di Felice che, davanti allo specchio, mima un tiro da tennis, la scena del crocefisso, lo sguardo della Contessa (una rediviva Edwige Fenech, un omaggio a un certo cinema degli anni Ottanta) verso Felice, quell’audio che scompare nel dialogo tra Raul e la sua ex compagna, interpretata da Valentina Bellè. Non sono banali neanche le canzoni d’epoca usate per riportarci agli anni Ottanta: Raf, Righeira, Alberto Camerini, Franco Battiato e tanti altri.

Ci piace tanto quel ritorno al campetto di tennis della sua infanzia, un posto in stato di abbandono, un paesaggio-stato d’animo che evoca il dissesto in cui si sta trovando in quel momento Raul. È un momento da cinema americano – il ritorno ai luoghi del passato che sono irrimediabilmente cambiati – come lo è quell’attenzione e quell’affetto per i perdenti, per gli underdog, gli outsider. Il Maestro è un racconto di sconfitta, imperfezione, accettazione dell’inadeguatezza, la libertà di poter dire “non ce l’ho fatta, e allora?” che diventa liberatorio per i protagonisti e in fondo per tutti. Ma è anche una spinta a riprendersi, a rompere le regole. Quel gioco attendista, in difesa, da fondocampo, in attesa dell’errore dell’altro, lo avrete capito, è una metafora di vita. E allora Il Maestro ci spinge a provare a cambiare le cose, e a giocare all’attacco.

di Maurizio Ermisino

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